Pensieri

Il meraviglioso pi greco

14.03.2022

A sentire Wisława Szymborska, io sarei uno di duemila. La statistica si trova nel componimento Ad alcuni piace la poesia, in cui la poetessa, premio Nobel nel 1996, quantifica così gli «alcuni». In realtà credo sia un filo troppo pessimista: non sono un lettore tanto raro. Ma capisco bene cosa intenda. Molti credono che la poesia sia tutta nuvolette e fiorellini, avulsa dal mondo reale; hanno ragione e torto allo stesso tempo. È vero che nella poesia ci sono le nuvolette e i fiorellini, ma il motivo è semplice: anche nel mondo reale ci sono prati e temporali. La verità è che si può scrivere
una bella poesia su qualunque tema. Inclusi i numeri. Come mostrano molti versi della Szymborska, la matematica si presta alla poesia.
Entrambe danno forma al pensiero con parsimonia: possono creare interi mondi nello spazio di poche brevi righe. In Grande numero Szymborska si lamenta di sentirsi disorientata di fronte ai numeri con molti zeri, mentre il suo Contributo alla statistica nota che «Su cento persone: // che ne sanno
sempre più degli altri /– cinquantadue» ma anche «degni di compassione /– novantanove». E poi c’è Pi greco, la mia poesia preferita. Sia la poesia, sia il numero iniziano così: tre virgola uno quattro uno.

Una volta, durante l’adolescenza, ho confessato la mia ammirazione per questo numero a una compagna di classe. La ragazza si chiamava Ruxandra; come la poetessa, il suo nome proveniva dall’altra parte della cortina di ferro. I suoi genitori erano originari di Bucarest. Non sapevo nulla dell’Europa orientale, ma non aveva alcuna importanza: a Ruxandra stavo simpatico. Le piaceva che fossi un po’ diverso dagli altri ragazzi. Trascorrevamo gli intervalli fra le lezioni nella biblioteca scolastica, a scambiarci dritte per i compiti e idee sul futuro. Per mia fortuna, la materia in cui riusciva meglio era la matematica. In un impeto di curiosità le chiesi quale fosse il suo numero preferito. Fu lenta a rispondere; non sembrò capire la mia domanda. «I numeri sono numeri», disse infine.
Non trovava alcuna differenza tra il numero 333, per esempio, e il numero 14? No, non ne trovava.
E allora che dire di pi greco, insistei, questo numero quasi magico che ci avevano spiegato a lezione: non lo trovava bellissimo?
Bellissimo? Fece una smorfia perplessa.
Ruxandra era figlia di un ingegnere.
Gli ingegneri e i matematici vedono il numero pi greco in maniera del tutto differente. Agli occhi degli ingegneri pi greco è soltanto un valore compreso tra 3 e 4, benché meno maneggevole di entrambi questi numeri interi. Nei calcoli spesso lo evitano del tutto, preferendogli un’approssimazione più comoda come 22/7 o 355/113. La precisione di cui hanno bisogno non oltrepassa mai il terzo o quarto decimale (3,141 o 3,1416, arrotondando). Non si interessano agli altri decimali oltre il terzo o quarto; per quanto li riguarda, è come se non esistessero.
I matematici vedono pi greco in maniera diversa, più intima. Cosa rappresenta per loro? È la lunghezza della circonferenza del cerchio divisa il diametro, il segmento che lo divide esattamente in due parti uguali. È una risposta essenziale alla domanda: «Cos’è un cerchio?». Ma la risposta, se espressa in numeri, è infinita: pi greco non ha un’ultima cifra, e quindi neanche una penultima, una terzultima, una quartultima e così via. Non si potrebbe mai scriverne tutte le cifre, neanche su un pezzo di carta grande quanto la Via Lattea. Nessuna frazione potrà mai esprimere appieno pi greco: tutti i calcoli della terra forniranno soltanto cerchi insufficienti, ellissi ridicole, pallide imitazioni dell’ideale. Il cerchio descritto da pi greco è perfetto, ma appartiene esclusivamente al regno dell’immaginazione. Come spiegano i matematici, le cifre di questo numero non seguono uno schema periodico o regolare: proprio quando ci aspetteremmo un 6, la sequenza continua invece con un 2, uno 0 o un 7; dopo una serie di 9 consecutivi, può proseguire con un altro 9 (o altri due, o tre) o saltare imprevedibilmente a un’altra cifra. Insomma, pi greco sfugge alla
nostra comprensione.
I cerchi perfetti, tradotti in numeri, contengono ogni possibile stringa di cifre. Da qualche parte dentro pi greco, magari migliaia di miliardi di cifre dopo l’inizio, si affastellano numeri 5 ripetuti 100 volte di fila, mentre da qualche altra parte compaiono mille 0 e 1 che si alternano. In un punto assai profondo, nel ginepraio apparentemente casuale delle cifre, a una distanza inimmaginabile dall’inizio, raggiungibile soltanto dopo calcoli che si sono protratti per un tempo assai più lungo di quello che ci separa dal Big Bang, la sequenza 123 456 789… si ripete 123 456 789 volte di seguito. Se soltanto potessimo spingerci abbastanza in là, troveremmo le prime cento cifre del numero, o le prime mille, o un milione, o un miliardo perfettamente ripetute, come se da un momento all’altro l’intera enorme sfilza dovesse ricominciare da capo. Eppure non lo fa mai. C’è un
solo pi greco, irripetibile, indivisibile.
Pi greco non ha mai smesso di affascinarmi, anche molto dopo la fine della scuola. Le cifre mi rimanevano impresse nella mente. Parevano suggerire
infinite possibilità, avventure senza confini. Ogni tanto mi sorprendevo a mormorarle, come un lieve richiamo alla memoria. Ovviamente non potevo
possedere il numero, la sua bellezza o la sua immensità. Forse era lui a possedere me. Un giorno ho cominciato a intravedere cosa avrebbe potuto diventare questo numero, trasformato da me, e io da lui. È stato allora che ho deciso di impararne a memoria una gran quantità di cifre.
È stato più facile di quanto sembri, perché le cose grandi sono spesso più insolite di quelle piccole, colpiscono l’attenzione e quindi si imprimono nella memoria. Per esempio, una parola breve come «eco» o «lato» si legge (o si sente) in fretta, e si dimentica altrettanto rapidamente, mentre «ippopotamo» fa soffermare il nostro sguardo (o ascolto) appena quel tanto che basta a lasciare un’impressione più duratura. Ho notato che le scene e i personaggi dei romanzi lunghi mi ritornano in mente assai più spesso e con maggiore fedeltà all’originale rispetto a quelli dei racconti brevi. Vale altrettanto per i numeri. Un numero comune come 31 rischia di essere confuso coi suoi vicini altrettanto anonimi, 30 e 32, mentre 31415 no: la sua estensione stimola un esame attento e curioso. Le sequenze di cifre più lunghe e intricate danno luogo a ritmi e schemi riconoscibili: non
31, 314 o 3141, ma 3 1 4 1 5 canta.
Devo dire che ho sempre avuto quella che la gente chiama «una buona memoria». Con ciò si intende che sono totalmente affidabile nel ricordare i numeri di telefono, le date dei compleanni e degli anniversari, e il tipo di cifre e fatti che si trovano a bizzeffe nei libri e negli spettacoli televisivi. Avere una memoria simile è una fortuna, lo so bene, e mi è sempre tornato utile. Gli esami scolastici non mi hanno mai spaventato e il tipo di conoscenze trasmesse dagli insegnanti sembrava perfettamente applicabile alla mia capacità mnemonica. Chiedetemi per esempio la terza persona del congiuntivo del verbo francese «être», o ancora meglio, come Maria Antonietta abbia perso la testa, e vi potrei rispondere senza problemi. Niente di più facile.
Le cifre di pi greco sono così diventate il mio oggetto di studio: stampate su carta bianca in formato lettera, mille cifre per pagina, le osservavo come un pittore davanti al suo paesaggio preferito. L’occhio del pittore riceve un numero quasi infinito di particelle luminose da interpretare, poi le filtra in base al loro significato intuitivo e al suo gusto personale. Il pennello si posa in un punto della tela, poi all’improvviso balza in un altro punto; il profilo di una montagna appare via via con il paziente accumularsi di minuscoli tratti di colore. Allo stesso modo io aspettavo che ogni sequenza di cifre mi colpisse, che il mio sguardo fosse catturato, per esempio, da qualche caratteristica interessante, o da una combinazione piacevole di cifre «chiare» (come 1 o 5) e «scure» (come 6 o 9). A volte succedeva in breve tempo, altre volte dovevo andare avanti di trenta o quaranta cifre per trovare un qualche significato, e poi tornare indietro. Le centinaia di singole cifre, poi migliaia, raffigurate con precisione e valutate con cura, componevano poco a poco un panorama numerico.
I pittori espongono le loro opere. Cosa avrei potuto fare io? Dopo tre mesi di preparazione, ho deciso di portare il numero in un museo, con quella massa interminabile di numeri stipata in testa. Il mio obiettivo era stabilire il record europeo di declamazione di pi greco fino al maggior numero di decimali.
Marzo è il mese degli acquazzoni primaverili, delle vacanze scolastiche e delle finestre tirate a lucido. È anche il mese in cui il mondo intero celebra il
«giorno di pi greco», il 14 marzo (ovvero 3/14 indicando il mese prima del giorno alla maniera anglosassone). In quel giorno del 2004 ho lasciato Londra diretto a ovest. Alcuni membri dello staff del Museo di Storia della Scienza dell’Università di Oxford mi stavano aspettando. Anche i giornalisti: un articolo del Times, completo della mia foto, annunciava la prossima declamazione.
Il Museo si trova in centro, in uno dei più antichi edifici ancora in piedi fra quelli costruiti appositamente per diventare un museo: l’Old Ashmolean.
Grandi teste di pietra con barbe di pietra guardano dall’alto i visitatori che attraversano il cancello. I muri sono spessi, del colore della sabbia. Mentre
mi avvicino all’edificio, una banda di fotografi sbuca dal nulla, con i visi quasi mascherati dalle macchine fotografiche. I lampi abbaglianti dei flash pietrificano per un attimo la mia espressione. Mi fermo e piego le labbra in un sorriso. Un minuto e sono spariti.
Gli organizzatori del tentativo di record hanno occupato l’edificio del museo. I cavi delle telecamere serpeggiano per tutto il pavimento. Sui muri sono
appesi dei manifesti che chiedono donazioni (su mia richiesta, l’evento raccoglie fondi per un ente benefico che si occupa di epilessia, la malattia di cui ho sofferto da bambino). Entrando vedo un tavolo e una sedia già preparati per me da un lato della sala. Davanti c’è un tavolo più lungo per i matematici che verificheranno le cifre da me pronunciate. Manca ancora un’ora all’inizio della declamazione e trovo soltanto un terzetto di uomini che stanno parlando. Uno ha una folta capigliatura ispida, un altro una cravatta multicolore, e il terzo né capelli né cravatta. Quest’ultimo fa qualche passo spedito verso di me e si presenta come il responsabile dell’organizzazione. Quindi stringo la mano al conservatore del museo e al suo assistente. Le loro facce mostrano un insieme un po’ confuso di perplessità, curiosità e nervosismo. Poco dopo arrivano i giornalisti a tenere i microfoni e a manovrare le telecamere. Riprendono le vetrine con gli astrolabi, le bussole e i manoscritti di matematica. Qualcuno si incuriosisce della lavagna appesa in alto sul muro di fronte a noi. Il conservatore spiega che fu usata da Albert Einstein per un seminario tenuto il 16 maggio 1931. E le equazioni scritte col gesso? Mostrano i suoi calcoli sull’età dell’universo, risponde il conservatore; secondo Einstein l’universo ha circa 10 mila milioni di anni, o forse 100 mila milioni.
I rumori di passi sui gradini di pietra del museo si moltiplicano man mano che l’orario si avvicina. I matematici arrivano come previsto, ben sette, e si
siedono. Continuano ad arrivare uomini, donne e bambini; presto rimangono soltanto posti in piedi.
L’atmosfera della sala si riempie di chiacchiere sommesse. Alla fine gli organizzatori chiedono di fare silenzio. Tutti gli occhi sono puntati su di me; nessuno si muove. Bevo un sorso d’acqua e sento la mia voce iniziare. «Tre virgola uno quattro uno cinque nove due sei cinque tre cinque otto nove sette nove tre due tre otto quattro…».
Il mio pubblico rappresenta appena la seconda o la terza generazione che ha la possibilità di sentire il numero pi greco oltre le prime decine o centinaia di decimali. Per millenni è esistito solo in una manciata di cifre. Archimede ne conosceva soltanto 3 corrette; Newton, quasi due millenni dopo, arrivava a 16. Soltanto nel 1949, grazie al computer, si è scoperta la millesima cifra decimale di pi greco: 9.
Mi ci vogliono circa dieci minuti, alla velocità di una o due cifre al secondo, a raggiungere questo 9.
Non so esattamente quanto ci ho messo; un orologio elettronico diretto al pubblico misura i secondi, i minuti e le ore della declamazione, ma dalla mia sedia non posso vederlo. Interrompo la declamazione per bere un po’ d’acqua e prendere fiato. La pausa sembra tangibile, persino dolorosa. Provo una solitudine completa, oppressiva.
Le regole della declamazione sono rigide. Non posso allontanarmi dal tavolo tranne che per andare in bagno, e comunque accompagnato da un dipendente del museo. Nessuno può parlare con me, neanche per incoraggiarmi. Posso fermarmi qualche istante per bere, mangiare un frutto o un pezzo di cioccolato, ma soltanto a intervalli prestabiliti, ogni mille cifre. Le telecamere registrano ogni mia parola e gesto.
«Tre otto zero nove cinque due cinque sette due
zero uno zero sei cinque quattro…».
Ogni tanto uno starnuto o un colpo di tosse del pubblico inframmezza lo scorrere delle cifre. Non ne sono infastidito. Medito sui colori, le forme e le
superfici tattili del mio paesaggio numerico interno. La calma mi pervade, la mia ansia si dissipa.
Molti spettatori ignorano tutto dei poligoni di Archimede, non hanno idea che prima o poi le dieci cifre appena sentite si ripeteranno, e per un numero infinito di volte. Non hanno mai creduto di potersi interessare in alcun modo alla matematica, ma ascoltano attentamente. La concentrazione della mia voce sembra contagiare anche loro. Facce giovani e vecchie, ovali e tondeggianti, mostrano tutte una leggera tensione. Ascoltando le cifre sentono le taglie che portano, i compleanni dei familiari, le password dei computer. Sentono estratti – al contempo più corti e più lunghi – dei numeri di telefono degli amici, dei fidanzati, dei genitori. Alcuni si sporgono un po’ in avanti in attesa. Nelle menti le strutture riconoscibili appaiono e scompaiono con altrettanta velocità.
Il pubblico è vario. Ogni persona è venuta per motivi diversi, e ha aspettative diverse. Un adolescente cerca un antidoto alla noia domenicale; un
operaio che ha donato una parte di salario equivalente a un pacchetto di sigarette rimane per avere qualcosa in cambio; una turista americana in calzoncini e berretto di Topolino non vede l’ora di raccontare lo spettacolo alla sua famiglia.
Passa un’ora, poi un’altra.
«Zero, cinque, sette, sette, sette, sette, cinque, sei,
zero, sei, otto, otto, otto, sette, sei…».
Mi spingo sempre più nelle profondità del numero, esalando sforzo, ritmo e precisione a ogni respiro. I decimali mostrano una sorta di ordine profondo. I 5 non si distanziano mai troppo dai 6, né gli 8 e i 9 predominano sugli 1 e sui 2. Nessuna cifra prevale, se non qua e là, a momenti passeggeri; alla fine, ciascuna è rappresentata più o meno equamente. Ogni cifra contribuisce al tutto nella stessa misura.
A metà della declamazione, dopo oltre diecimila cifre decimali, mi fermo per sgranchirmi un po’. Spingo via la sedia, mi alzo e sciolgo le membra. I
matematici posano le matite appuntite e aspettano. Avvicino una bottiglia alle labbra per bere: l’acqua sa di plastica. Mangio una banana. Piego le gambe, mi risiedo al tavolo e continuo.
Il silenzio nella sala è totale, regna incontrastato.
Quando a un tratto squilla un cellulare di una giovane donna, l’espulsione è immediata. Nonostante queste rare interferenze, tra me e il
pubblico si instaura una maliziosa complicità che segna un cambiamento fondamentale. All’inizio gli uomini e le donne sorridevano tranquilli, ascoltavano con interesse e piacere il suono familiare delle cifre, man mano che quelle misure di scarpe, date storiche e targhe automobilistiche li raggiungevano. Ma in maniera lenta e impercettibile qualcosa è cambiato. Si è diffuso un certo scoraggiamento; si sono resi conto che non riescono a seguire il ritmo della mia voce senza fare dei continui, piccoli sforzi di adattamento. A volte, per esempio, declamo le cifre velocemente, altre volte rallento. Ogni tanto mi lancio in brevi raffiche intervallate da qualche pausa, altre volte pronuncio i decimali con lentezza e continuità. A volte le cifre risuonano esili, accentuate dall’agitazione che pervade la mia voce; qualche istante dopo, si ammorbidiscono in un ritmo chiaro e ondeggiante. Lo scoraggiamento si trasforma sempre più in curiosità. Sento che il pubblico respira al mio stesso ritmo. Sento l’interesse genuino che accoglie il suono, il passaggio di ogni cifra man mano che svanisce e fa posto alla seguente. Quando le cifre si fanno più scure – pesanti 8 e 9 affastellati – la tensione cresce sui visi più lontani. Quando un 3 improvviso spunta da una serie di 0 e 7, percepisco qualcosa di simile a un ansito collettivo. Silenziosi cenni d’assenso approvano le mie accelerate; sorrisi calorosi accolgono i miei rallentamenti.
Dopo essermi fermato per bere o mangiare qualcosa, e prima di ricominciare, non so proprio dove rivolgere lo sguardo. La mia solitudine è assoluta;
non voglio guardare la gente negli occhi. Mi fisso le ossa e le vene delle mani, e i graffi sul tavolo di legno dove sono posate. Noto qua e là i luccichii delle vetrine metalliche. Su alcune guance non posso fare a meno di scorgere le lacrime. Forse l’esperimento ha colto alla sprovvista i membri del pubblico. Nessuno li ha avvertiti che avrebbero trovato il numero tangibile e commovente, eppure si abbandonano volentieri al suo scorrere.
Non sono il primo a recitare pi greco in pubblico. So che esistono alcuni «artisti dei numeri», capaci di declamarli come attori che recitano la parte.
Il Giappone è il centro di questa piccola comunità. In giapponese il nome delle cifre può suonare come una frase intera; pronunciate in un certo modo, le cifre iniziali di pi greco, 3,14159265, significano «un ostetrico va in un paese straniero». Le cifre 4649 (che in pi greco si verificano dopo 1158 decimali) suonano proprio come «piacere di conoscerti», mentre pronunciando le cifre 3923 (che in pi greco si verificano dopo 14194 decimali) il parlante giapponese dice al contempo «thank you, fratello».
Naturalmente queste costruzioni verbali sono tutte un po’ arbitrarie. Le parole, brevi e rigide, rimangono separate, le riunisce soltanto l’ingegnosità dell’ascoltatore. Ho sentito che gli spettatori giapponesi guardano le esibizioni di questi artisti nella speranza di vederli sbagliare, come chi osserva gli acrobati che camminano sul filo in attesa della caduta.
Questi artisti hanno un rapporto complicato con i numeri. I lunghi anni di studio ripetitivo affinano la loro tecnica, ma al contempo provocano un fastidioso sdoppiamento: spesso i numeri (e le parole) così ripetuti finiscono per non avere più alcun significato. Non è raro che dopo ogni esibizione pubblica l’artista si imponga un digiuno di mesi da qualsiasi cifra. È talmente ubriaco di numeri che basta un indirizzo, un codice a barre, un cartellino con il prezzo a dargli il voltastomaco.
Nel cervello dell’artista dei numeri, pi greco si può ridurre a una serie di frasi. Nella mia mente sono io a ridimensionarmi, non il numero. Davanti al
mistero di pi greco, mi rimpicciolisco il più possibile; mi svuoto e osservo ogni cifra da vicino. Non desidero frammentare il numero; non mi interessa
spezzettarlo. Mi interessa il dialogo fra le sue cifre, l’unità e la continuità sottostanti. Una campana non può annunciare l’ora, ma si può farle segnare il mezzogiorno; allo stesso modo l’uomo non può calcolare infinite cifre, ma si può fargli recitare quelle di pi greco. «Tre, uno, due, uno, due, tre, due, due, tre, tre, uno…».
Mentre declamo le cifre, cerco di visualizzare quanto vedo e provo. Voglio trasmettere a tutti i presenti le forme, i colori e le emozioni nella mia
mente. Condivido la mia solitudine con chi mi guarda e mi ascolta. C’è intimità nelle mie parole.
Una terza ora inizia e finisce; la declamazione entra nella quarta ora.
Oltre 16 000 decimali hanno lasciato le mie labbra. L’infoltirsi dei loro ranghi mi spinge avanti. Ma al contempo la stanchezza si impadronisce del mio
corpo, e tutt’a un tratto la mia mente si svuota. Sento che il sangue mi va via dalla testa. Fino a pochi istanti fa le cifre mi avevano accompagnato; ora si fanno rare.
Nell’occhio della mente vedo dieci sentieri identici che si dipartono davanti a me; ciascuno porta a dieci altri sentieri. Cento, mille, diecimila, centomila, un milione di sentieri mi invitano a sbloccarmi. Si diramano in ogni direzione possibile. Quale scegliere? Non ho idea. Ma non cedo al panico. Serve mai a qualcosa?
Serro gli occhi e per spronarmi massaggio le tempie con delicatezza. Faccio un respiro profondo.
Un’oscurità verdognola mi invade la mente. Mi sento perso, disorientato. Una pellicola bianca affiora sull’oscurità, ma viene presto ricoperta da onde  color grigio violaceo. I colori vibrano ed emergono, ma non sembrano avere alcun significato.
Per quanto persiste questa esasperante nebbia colorata? Qualche secondo, ma ognuno mi è sembrato un tormento più lungo del precedente.
I secondi passano indifferenti; non ho altra scelta se non sopportarli. Se perdo la calma, è finita. Se dico qualcosa, l’orologio si ferma. Se non pronuncio la prossima cifra nel giro di pochissimi istanti, il tempo scadrà. Non c’è da stupirsi che questa prossima cifra, quando finalmente la pronuncio, abbia un sapore ancora più dolce delle altre. Tirarla fuori ha richiesto tutta la mia forza e la mia fede. La nebbia che avevo in testa si dirada, apro gli occhi e riesco di nuovo a vedere.
Le cifre scorrono veloci e sicure, e ridivento padrone di me stesso. Mi chiedo se qualcuno nella sala si sia accorto di nulla.
«Nove, nove, nove, nove, due, uno, due, otto, cinque, nove, nove, nove, nove, nove, tre, nove, nove…».
Presto, presto, devo continuare. Non devo cedere. Non posso indugiare, neanche davanti ai più impressionanti scorci della bellezza del numero; la gioia che provo lascia il passo al bisogno di raggiungere l’obiettivo e declamare l’ultima cifra che ho in mente. Non devo deludere tutti coloro che sono venuti a guardarmi e ascoltarmi, in attesa che io porti l’iniziativa alla sua degna conclusione. Tutte le migliaia di cifre precedenti non hanno alcun valore in sé e per sé: conteranno qualcosa soltanto quando avrò finito. Sono ormai trascorse cinque ore. Comincio a farfugliare; la stanchezza mi dà alla testa. Ma l’arrivo è ormai in vista. Sono impaurito: ne sarò all’altezza? E se fallisco? La tensione mi sprona allo sforzo finale.
E così, qualche minuto dopo, declamo: «Sei, sette, sei, cinque, sette, quattro, otto, sei, nove, cinque, tre, cinque, otto, sette». È tutto. Non c’è nient’altro
da dire. Ho finito di raccontare la mia solitudine.
Può bastare.
Le mani si avvicinano, parte l’applauso. Qualcuno lancia un grido entusiasta. «Un nuovo record» dice qualcun altro: 22514 decimali. «Congratulazioni».
Faccio un inchino.
Per cinque ore e nove minuti, l’eternità ha visitato un museo di Oxford.

Daniel Tammet, “Il meraviglioso pi greco”, da “La poesia dei numeri. Come la matematica mi illumina la vita”, 2014

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