Magazzino Memoria

Verde acqua

18.04.2022

19 marzo 1982

“Tra il 1947 e il 1948 a tutti gli italiani rimasti ancora a Fiume fu richiesta l’opzione: bisognava decidere se assumere la cittadinanza jugoslava o abbandonare il paese. La mia famiglia optò per l’ Italia e conobbe un anno di emarginazione e persecuzioni.
Fummo sfrattati dal nostro appartamento e costretti a vivere in una stanza con le nostre cose accatastate. I mobili furono venduti quasi tutti in previsione dell’ esodo.
Il papà perse il posto e, poco prima della partenza, fu imprigionato per aver nascosto due valige di un perseguitato politico che aveva tentato di espatriare clandestinamente e, catturato, aveva fatto il suo nome.- Con la sua consueta ingenuità, il papà si fece cogliere con le mani nel sacco.
Questi mesi di vita sospesa, non più a casa e non ancora del tutto altrove, furono da me vissuti con un profondo senso di irrealtà, non con particolare sofferenza. Giocavo con mia sorella sul marciapiede sotto la nostra nuova casa, a “porton”, con la palla o con la corda, fraternizzavo con i gatti del rione che conoscevo uno ad uno, andavo a trovare il nonno al caffè Sport e i miei vecchi amici nella casa vera e, per la prima volta, mi spingevo da sola lontano, ad esplorare una città che fino allora avevo poco conosciuta.
Ero più grande, più riflessiva e matura. E così che ricordo la mia Fiume – le sue rive ampie, il Santuario di Tersatto in collina, il teatro Verdi, il centro dagli edifici cupi, Cantrida – una città di familiarità e distacco, che dovevo perdere appena conosciuta.
Tuttavia quei timidi e brevi approcci, pervasi di intensità e lontananza, hanno lasciato in me un segno indelebile. Io sono ancora quel vento delle rive, quei chiaroscuri delle vie, quegli odori un pó putridi del mare e quei grigi edifici.
Per molti anni, dopo l’esodo, non ho più rivisto la mia città e l’ ho quasi dimenticata, ma quando ho avuto nuovamente l’ occasione di passare per Fiume e quel tratto di costa che porta a Brestova, dove generalmente prendiamo il traghetto per Cherso e Lussino, ho provato la chiara sensazione di ritornare nella mia verità.
Eppure non ricordavo nulla, almeno consapevolmente, di Icici, Mucici, Laurana, Moschiena, e poco di Abbazia e di Fiume stessa.
In realtà era me stessa che trovavo, guardando come in uno specchio, quel paesaggio mutevole di asprezze e di incanti.”

29 aprile 1983

“Feci cosí la mia prima conoscenza del Silos, dove vivevano accampati migliaia di profughi istriani, dalmati o fiumani come noi. Era un edificio immenso di tre piani, costruito sotto l’ impero absburgico come deposito di granaglie, con un ampia facciata ornata da un rosone e due lunghe ali che racchiudevano una specie di cortile interno, dove i bambini andavano a giocare a frotte e le donne stendevano i panni. L’ esterno di questo edificio è ancor oggi visibile vicino alla stazione ferroviaria.
Il pianterreno, il primo e il secondo piano erano quasi completamente immersi nel buio. Il terzo era invece rischiarato da grandi lucernai posti sul tetto, che però non potevano essere aperti.
In ogni singolo piano lo spazio era suddiviso da pareti di legno in tanti piccoli scomparti detti “box”, che si susseguivano senza intervalli come celle di un alveare. Si aprivano tra di essi strade maestre e stradine secondarie di collegamento.
I box erano tutti numerati e qualcuno aveva anche un nome, proprio come una villa. Anche le strade avevano nomi di riconoscimento: la strada della dalmata, quella dei polesani, la via della cappella o quella dei lavandini. Naturalmente i box più ambiti erano quelli vicino a una delle rare finestre che si aprivano sull’ esterno o quelli del terzo piano, che almeno ricevevano dal tetto la luce del giorno.
Entrare al Silos era come entrare in un paesaggio vagamente dantesco, in un notturno e fumoso purgatorio. Dai box si levavano vapori di cottura e odori disparati, che si univano a formarne uno intenso, tipico, indescrivibile, un misto dolciastro e stantio di minestre, di cavolo, di fritto, di sudore e di ospedale.
Di giorno, dall’ intensa luce esterna non era facile abituarsi subito alla debole luce artificiale dell’ interno. Solo dopo un poco si riuscivano a distinguere i contorni dei singoli box e ci si rendeva conto della disposizione complessa e articolata del tenebroso villaggio stratificato e dell’ andirivieni incessante di persone che si muovevano nelle sue strade e nei suoi crocevia.
Anche i rumori erano molteplici e formavano un brusio uniforme, dal quale si levavano ogni tanto le note acute di qualche radio, una voce irata, colpi di tosse o il pianto di un bambino.
Trovai la mamma intristita e trascurata e mia sorella cresciuta e un pò inselvatichita. Lucina si era abituata alla vita del Silos e aveva fatto tante amicizie con cui giocava felice tutto il giorno, nella spensierata adattabilità dell ‘ infanzia.
Il nostro box era tra quelli fortunati del terzo piano, proprio sotto un lucernaio. Era formato da due piccoli ambienti, di cui uno serviva da cucina, quasi tutto occupato dal tavolo e dalle sedie, e l’ altro da stanza da letto comune.
Nella cucina era stato ricavato uno sgabuzzino che fungeva da deposito di scope, rifiuti, bottiglie vuote, scarpe, giornali e riviste vecchie.
C’erano anche parecchi secchi e catini che, nelle giornate di pioggia, venivano disposti in vari punti del box per raccogliere l’ acqua che filtrava in piccoli rivoli dal tetto.
La nonna Quarantotto stava un pó con la zia Nina e più spesso con noi, poiché la mamma le era maggiormente sottomessa. A pranzo e a cena, tutta la famiglia si metteva in cammino per raggiungere da Piazza Libertà la mensa di via Gambini e spesso, quando la nonna non se la sentiva di fare quel lungo tragitto a piedi, la mamma le portava il pasto a casa, in una gamella.”

Marisa Madieri, da “Verde acqua”, 1987

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Immagine: Ernst Ludwig Kirchner, “Un’artista”, 1910

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